La costruzione di una poetica
Lorenzo Linthout, fotografo veronese, racconta i principi che ispirano il suo lavoro, il rapporto con l’architettura e la fotografia. Un viaggio che da Verona lo ha portato ad esplorare l’Europa e il mondo alla ricerca dell’immagine ideale. Intervista realizzata per il sito www.prcstudio.net http://www.prcstudio.net/contenuti/la_costruzione_di_una_poetica/4
Fotografia come poesia, principi architettonici come metrica. In estrema sintesi si potrebbe definire così il modus con cui opera Lorenzo Linthout, veronese, classe ’74 di professione fotografo. Una laurea in architettura presso l’Università di Ferrara, nel 1999, diversi anni di professione e poi l’abbraccio con la passione di sempre che è diventata una professione: la fotografia appunto. Ce lo racconta in questa intervista. Per saperne di più sull’argomento:http://www.linthout.it
Quando comincia a fotografare?
Piuttosto presto, avevo all’incirca quindici anni e iniziai con una macchina analogica. Un percorso durato quasi dieci anni, poi mi son preso una pausa di quasi sette, per riprendere esattamente dieci anni fa con una reflex digitale.
Dovuta a cosa?
In mezzo c’è stata un laurea in architettura e diversi anni di lavoro presso uno studio professionale.
E poi?
Il lavoro ha subìto un brusco arresto, e in quel momento, quasi inconsciamente, ho unito il piacere della fotografia a quello del lavoro. Da quel giorno non mi sono più fermato.
Sembrerebbe un incontro guidato dal destino…
Forse destino è una parola grossa, però mi piace vederci un qualcosa di particolare: quegli episodi negativi che ci conducono nei luoghi dell’anima, fatti di poesia. Con le debite proporzioni, s’intende, penso alla vita di Anna Achmatova, una poetessa che amo molto, la quale a causa delle enormi tragedie che la colpirono espresse un talento che forse non sapeva di avere. Ribadisco, il mio caso non è altrettanto drammatico fortunatamente, ma da una piccola sfortuna è nata una possibilità inattesa. Sono le intersezioni che disegna la vita.
Fotografia come poesia quindi?
Sì, nelle fotografie che scatto cerco una poetica, regolata da una metrica precisa.
Amo fotografare soggetti architettonici perché sono regolati da studi precisi, alla base c’è un progetto, un disegno e cerco di rispettarlo nelle immagini che creo pur esaltandone delle caratteristiche magari. Le penso, le studio e le realizzo. Talvolta sogno di trovare nella realtà l’immagine che ho nella mia mente. Non sempre ci riesco.
E la metrica?
Disegno, realtà, fotografia. Prospettiva, proporzioni, sezione aurea, regola dei terzi, elementi architettonici classici. Logiche numeriche precise, non c’è nulla che si apre o si chiude male. Passo molto tempo a osservare un luogo per rispettarne l’architettura, la progettualità. Anche l’inquadratura è importante. Nella lettura dell’immagine l’occhio tende ad andare da sinistra a destra, secondo la tradizione occidentale.
Riaffiorano gli studi universitari e gli anni di professione come architetto…
Sono fondamentali, non credo si possano fotografare elementi architettonici senza padroneggiare la materia, per me è inconcepibile. Io ”leggo” il disegno che sta dietro un edificio e poi fotografo. I conti tornano, non c’è improvvisazione. Ciò vale per la fotografia architettonica, magari in altri ambiti mi esprimo più istintivamente.
Un modus operandi preciso?
Sì, non c’è nulla di casuale, le porzioni di cielo, gli spazi, le geometrie interne alle immagini sono guidate da regole precise, riconducibili ai principi classici dell’architettura, pur declinati in tutte le loro evoluzioni e interpretazioni.
Uno dei suoi soggetti preferiti è l’architettura del Ventennio, perché?
È un soggetto fotogenico. Mi piacciono i rapporti tra le masse, le linee e le geometrie. C’è un qualcosa di fumettistico nel tratto grafico e un senso profondo del disegno. Elementi che me la fanno amare.
Fotografi a cui si ispira?
Apprezzo moltissimo il lavoro di Gabriele Basilico, amo la Scuola di Düsseldorf. La metafisica di Giorgio de Chirico e i suoi elementi architettonici: l’arco, la statua, la piazza vuota. Un modo di vedere l’ambiente che sento vicino.
Consideriamo due scatti: la Colonia Rosa Maltoni Mussolini sul litorale pisano e le piazze Garibaldi e Roma a Ronco all’Adige nella bassa veronese. Due luoghi lontani geograficamente, storicamente e anche concettualmente. Cosa attrae la sua attenzione, cosa li accomuna nella sua visione?
Li accomuna un chiaro riferimento ad un progetto, ad un disegno. In entrambi i casi ho trovato naturale ritrarli per questo motivo. Il soggetto non è mai uguale a se stesso, cambiano i parametri a seconda del luogo, del cielo, dei colori e del periodo. E di mille altre componenti, ma cerco sempre di rispettare le costanti che ispirano il mio lavoro.
Spesso sono presenti esili figure umane nelle sue immagini, a che scopo ?
Un tentativo di dare una proporzione fisica a favore di chi guarda, una scala metrica. Altre volte la loro presenza è isolata, di fronte ad enormi edifici pesanti e inquietanti. È questo il caso di alcuni scatti di Forte Quezzi, detto Biscione, a Genova: un tentativo di esprimere il complesso rapporto che si instaura tra uomo e architettura e l’incomunicabilità che ne scaturisce.